Dopo più di un anno dall’inizio della terribile pandemia da Covid 19, che continua a mettere a durissima prova la tenuta del Sistema Sanitario Nazionale, la comunità scientifica è unanime nel ribadire che il virus deve essere combattuto a casa, durante le prime e più delicate fasi, nelle quali la tempestività risulta determinante per scongiurare il rapido aggravamento dei sintomi. Ed è per questo che nei TAR di tutta Italia i medici di famiglia stanno invocando tutela del proprio diritto a prescrivere le terapie ritenute più efficaci per i pazienti non ospedalizzati.
Con ordinanza del 2 marzo scorso, il TAR del Lazio ha accolto l’istanza cautelare promossa dal Comitato cura domiciliare Covid 19, nei confronti del Ministero della salute e di AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), sospendendo la nota del 9 dicembre 2020 recante “principi di gestione dei casi covid19 nel setting domiciliare” consistenti unicamente, secondo le linee guida contenute nella nota ritenuta illegittima, in una “vigile attesa” e nella somministrazione di antifiammatori o paracetamolo.
Il giudice amministrativo ha accolto le istanze dei medici ricorrenti, evidenziato l’importanza di preservare l’autonomia decisionale del medico – tutelata dalla Costituzione e dalla legge - ribadendo che “i medici di base hanno il diritto-dovere, avente giuridica rilevanza sia in sede civile, sia penale, di prescrivere i farmaci che essi ritengono più opportuni secondo scienza e coscienza e che non può essere compresso nell’ottica di una attesa, potenzialmente pregiudizievole sia per il paziente che, sebbene sotto profili diversi, per i medici stessi”.
In realtà, sul tema si era già in parte espresso il Consiglio di Stato, a seguito dell’impugnazione delle raccomandazioni di Aifa nelle quali veniva vietata la somministrazione della idrossiclorochina – un farmaco antimalarico- sulla scorta di studi clinici randomizzati, ritenuti dal Consiglio di Stato non sufficienti, sul piano giuridico, a giustificare “l’irragionevole sospensione del suo utilizzo sul territorio nazionale da parte dei medici curanti”. Già in quella occasione i giudici di Palazzo Spada, in riforma della precedente ordinanza numero 7069 del 16 novembre 2020 del Tar Lazio, aveva evidenziato che la scelta se utilizzare o meno il farmaco, in una situazione di dubbio e di contrasto nella comunità scientifica, sulla base di dati clinici non univoci, dovesse rimettersi all’autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico, con l’ovvio consenso informato del singolo paziente, e non ad una astratta affermazione di principio, in nome di un modello scientifico puro, declinato da AIFA con un aprioristico e generalizzato, ancorché temporaneo, divieto di utilizzo.
Ferma restando la necessità, ben scolpita nelle pronunce citate, di tutelare il diritto del medico a curare il paziente secondo “scienza e coscienza”, le decisioni del giudice amministrativo confermano l’esigenza di definire linee guida uniformi e fondate su tesi accreditate dalla comunità scientifica, pure nel rispetto della autonomia del medico davanti alla malattia e al caso concreto.