Nel video intervento si intende proporre uno spunto di riflessione sulla sentenza del Consiglio di Stato, VI sezione, n. 1321 del 25 febbraio 2019, la cui legittimità è stata di recente ribadita dalle Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass., S.U., sent. n. 18592/2020).
Con la pronuncia in commento, il Consiglio di Stato si è occupato dei limiti del giudicato amministrativo e della estensione della discrezionalità amministrativa, precisando che quest’ultima, inclusa la discrezionalità tecnica, può risultare progressivamente “ridotta” per effetto della “insanabile frattura del rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadino.
Muovendosi in una logica di protezione dell’interesse legittimo, inteso come interesse legittimo finale, il Giudice amministrativo è giunto a riconoscere, pur nell’ambito di un giudizio di annullamento, la fondatezza sostanziale della pretesa azionata, ordinando all’amministrazione di rilasciare il provvedimento richiesto (nella specie, l’abilitazione scientifica nazionale di professore di prima fascia), avvalendosi del potere di esplicitare nel dispositivo della sentenza gli effetti conformativi da cui discende la regola del rapporto, ex art. 34, c.1, lett. e del c.p.a.
La sentenza delinea un nuovo modello di processo amministrativo di “cognizione ad esecuzione integrata”, volto ad evitare che la “crisi di cooperazione tra privato e Amministrazione si risolva in una defatigante alternanza tra procedimento e processo, con grave dispendio di risorse pubbliche e private”.
Il punto nodale della vicenda attiene al delicato equilibrio tra tra il principio di giustiziabilità delle pretese e di effettività della tutela (24, 103 e 113 Cost., artt. 6 e 13 della Convenzione europea) ed il principio di separazione dei poteri (artt. 1 e 97 Cost., con il quale tradizionalmente viene giustificata la riserva di valutazione in capo alla pubblica amministrazione).
Nel video intervento si propone una riflessione sulla possibilità di ritenere che “la consumazione della discrezionalità” possa realizzarsi al di fuori della dialettica processuale, in seno alla fase istruttoria procedimentale, dove si anima il dialogo tra privato e potere pubblico.
Nell’ottica di accordare una tutela effettiva alla domanda di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita, il privato deve essere messo nelle condizioni di conoscere i motivi che ostano alla positiva valutazione delle proprie pretese in un momento antecedente rispetto al contraddittorio processuale, anche attraverso un valorizzazione e un potenziamento dell’istituto dell’art. 10 bis della legge 241/1990, strumento che oggi raramente assolve alla funzione originariamente assegnatagli.
Sebbene in passato la giurisprudenza abbia ritenuto che il “nostro ordinamento non conosce un principio generale che imponga alla p.a. un onere di clare loqui spinto fino al punto di esplicitare, in modo esaustivo e con effetto preclusivo, tutti i motivi che possano supportare una determinata conclusione, dovendosi al contrario ammettere che la p.a. possa mettere in evidenza, ad esempio in sede di provvedimento di diniego, motivi autosufficienti considerati più significativi”, si ritiene che tale assunto rispecchi un sistema processuale diverso da quello odierno, per certi aspetti incompatibile con il “giudizio di spettanza” delineato dal Consiglio di Stato con la sentenza in commento.
La dialettica potere/interesse deve concentrarsi nella fase predecisoria, al fine di garantire autentica effettività al diritto di contraddittorio dell’interessato e ampia espressione delle sue facoltà partecipative, di cui è intessuto l’interesse legittimo.
Perché l'amministrazione avrebbe già completato le scelte che le competono, la decisione di merito verrebbe già interamente definita e il procedimento avrebbe l’effetto di «svuotare» progressivamente l’amministrazione del proprio potere discrezionale, costituendo un vincolo intraneo alla discrezionalità amministrativa.
Qualora l’Amministrazione, in sede di riedizione del potere, dovesse confermare la propria determinazione, adottando un provvedimento sulla scorta di presupposti diversi rispetto a quelli emersi nel corso dell’istruttoria precedentemente svolta, incorrerebbe in un vizio di eccesso di potere.
Accertato che l’ambito di discrezionalità - anche tecnica- rimessa all’Amministrazione si sia progressivamente ridotto sino a “svuotarsi” del tutto, il giudice potrà spingersi sino alla verifica dell’esistenza in concreto dei presupposti per il rilascio del provvedimento richiesto.
L’istruttoria deve assurgere a vero e proprio vincolo conformativo idoneo a consumare ogni ambito della discrezionalità della pubblica amministrazione nell’ambito di un unico procedimento, senza possibilità di “parcellizzazioni” successive.
Un simile assetto permetterebbe un ricorso molto più ampio ai poteri di cui agli art 31 comma 3 e all’art. 34, comma 2 c.p.a., consentendo la piena realizzazione del modello processuale di “cognizione ad esecuzione integrata”.